Nel
2010, quando pubblicai L'Anno della Tigre, una raccolta dei miei quadri (e dei
testi ad essi allegati) fino a quegli anni, Antonia, una cara amica di Napoli, mi propose di sottoporre questo lavoro ad un suo
autorevole conoscente: Nino D’Antonio, napoletano, ex docente di Letteratura
italiana all’Università di Napoli, scrittore, giornalista che ha dato alle
stampe una trentina di libri tra narrativa e saggistica, oltre ad aver ricevuto
nel corso della sua lunga carriera numerosi riconoscimenti e premi
giornalistici. Non ebbi mai il piacere di incontrarlo personalmente, e
purtroppo ci scambiammo solo alcune "non facili" parole al telefono,
in quanto prima di pubblicare la sua recensione nel mio libro io dovetti per forza
rettificare un suo breve concetto espresso (troppo in antitesi con il reale
processo da cui partiva il mio dipingere), e lui (giustamente fiero ed
orgoglioso napoletano) per un malinteso non comprese del tutto le mie
intenzioni. Tuttavia ciò che scrisse (e l'ho ripreso ora dopo molti anni) ha in
sé elementi alquanto interessanti e veri per me, considerando che non ci siamo
mai conosciuti e visti, e che lui scrisse il pezzo con maestria solo dopo aver
visto le foto dei miei quadri e letto i testi che sempre li accompagnano. Analisi,
pensieri e considerazioni sul mio (non falso) modesto lavoro, che io mai avrei
potuto scrivere. Il testo è rimasto chiuso in quel libro, visto, letto e
comprato da pochissime persone, ovviamente, per lunghi anni, e credo valga la
pena, anche solo per riconoscere i meriti dell'autore, riproporlo qui. Eccolo:
La
pittura di un vagabondo
“…. fatti non foste a viver come bruti ma per
seguir virtute e canoscenza…”.
E’
l’Ulisse di Dante il solo modello al quale credo sia riconducibile il vagabondare
di Eliseo Oberti. I riferimenti a Bruce Chatwin o a Hermann Hesse, che pure
vengono spontanei, risultano a ben vedere più tranquilli, direi più pigri
rispetto all’inappagata tensione di Eliseo. Per il quale, il viaggio – che ha
solo una data di partenza, aperto com’è al richiamo di qualunque tentazione – è
uno stato di necessità, un bisogno fisico, che si fa sofferenza appena l’uomo
prende stanza da qualche parte.
Così
non ci sono – e non possono esserci – legami di sorta, ma solo questo profondo
bisogno di andare per il mondo. Non importa dove e come, ma solo andare. Spesso
verso mete estreme con mezzi che ai non viaggiatori possono apparire
altrettanto estremi.
Ma
non è l’avvincente e sofferto vagabondare di Oberti a interessarmi. Quanto le
imprevedibili facce della sua personalità, che se vive il viaggio come scopo
primario dell’esistenza, sa narrare egregiamente di questi suoi avventurosi
itinerari, in fortunati libri. E ancora: scrive poesie e canzoni, e infine
dipinge. Tutto per diletto, per passione, perché nella sua essenza rimane
soltanto un viaggiatore.
Eppure,
i quadri che ha messo insieme (al di là delle sue severe, o provocatorie,
considerazioni: “non so dipingere”) meritano un’attenta lettura. Che risulta
tanto più intrigante e suggestiva per i versi che di volta in volta
accompagnano l’opera. Una sorta di ambientazione del dipinto, di ricerca e
sintesi delle emozioni (e dei pensieri) da cui è nato - o meglio a cui è giunto
-, una chiave di lettura che è solo un’ipotesi fra le tante possibili che il
testo e il quadro suggeriscono.
Da
un viaggiatore che affronti la tela, il paesaggio è quasi d’obbligo. Reso a
tutte le latitudini e in tutte le stagioni. Animato o deserto, ma comunque
ispirato a un topos, e sempre teso a rappresentare la bellezza della natura e
del territorio. Nella pittura di Eliseo Oberti non c’è il paesaggio e non c’è
l’impegno a realizzare qualcosa che sia accattivante, ovvero il quadro
“ruffiano” che piaccia a tutti.
I
motivi ispiratori appaiono essenzialmente cerebrali, intellettivi, ma dietro il
dipinto c’è un flusso inconsapevole e inconscio, un groviglio di pensieri che
durante il lavoro stesso si canalizzano in un’idea che Eliseo trasforma in
immagini. Ed è qui – a mio avviso – il valore e il senso del suo dipingere. Nella
capacità di passare da una spinta inconscia ad una razionale, da un flusso
interiore ad una resa emotiva, che è come dire viaggiare dal centro di sé fino
al cervello e al cuore, dall’energia pura della creatività alla ragione e alla
fantasia.
Si
dirà che ogni forma d’arte, che sia veramente tale, vive di questi transfert ma
in genere si tratta di contenuti che hanno già in sé una naturale tendenza
all’immagine, cosa poco ricorrente nelle tele di Oberti. Penso ad Anima nativa
(ispirata alle violenze subite da molte etnie); a Il giardino dell’anima (con
il suo incipit: Non amo le religioni); a Natura felina; a La realtà si colora
dei pensieri. E ancora: L’energia del caos; Gli artigli della mente; Fiori dal
nulla. Una rosa di quadri ai quali fanno da contraltare quelli ispirati alla
donna e agli affetti più intimi. Una sorta di pausa, che i versi introducono
con rara sintonia.
E
passiamo al linguaggio, con il quale queste tematiche sono rese. Eliseo non può
valersi di quel mestiere che consente in ogni caso di superare l’impasse di un
quadro ma direi che proprio qui è da ricercare il meglio dei suoi lavori.
Nell’immediatezza della rappresentazione, senza il sapiente uso di quei filtri
accademici che finiscono spesso per uniformare anche l’ispirazione più fresca
ed anarchica.
E’
un requisito, questo, al quale aggiungerei la coscienza (e l’umiltà) di chi sa
di trasferire sulla tela un mondo che non è il più congeniale a questo tipo di
espressione. E di farlo attraverso una ricerca cromatica, attenta ed equilibrata,
dove spesso è il tono più che il colore a contribuire al felice esito del
dipinto.
Così
le opere riescono a proporsi con una loro sicura autonomia, rispetto al
contesto di una vita all’insegna dell’avventura, della quale conservano
tuttavia il fascino e la suggestione".
Altri link dell’autore:
Il canale in You Tube dove trovare tutti i
minivideo di Gentleman Gipsy:
La pittura:
Le foto di“pop art”: curiosità, stranezze e poesia
del mondo come lo vedo io:
I libri pubblicati: