15 novembre 2019

L'Anno della Tigre: recensione di Nino D'Antonio

Nel 2010, quando pubblicai L'Anno della Tigre, una raccolta dei miei quadri (e dei testi ad essi allegati) fino a quegli anni, Antonia, una cara amica di Napoli, mi propose di sottoporre questo lavoro ad un suo autorevole conoscente: Nino D’Antonio, napoletano, ex docente di Letteratura italiana all’Università di Napoli, scrittore, giornalista che ha dato alle stampe una trentina di libri tra narrativa e saggistica, oltre ad aver ricevuto nel corso della sua lunga carriera numerosi riconoscimenti e premi giornalistici. Non ebbi mai il piacere di incontrarlo personalmente, e purtroppo ci scambiammo solo alcune "non facili" parole al telefono, in quanto prima di pubblicare la sua recensione nel mio libro io dovetti per forza rettificare un suo breve concetto espresso (troppo in antitesi con il reale processo da cui partiva il mio dipingere), e lui (giustamente fiero ed orgoglioso napoletano) per un malinteso non comprese del tutto le mie intenzioni. Tuttavia ciò che scrisse (e l'ho ripreso ora dopo molti anni) ha in sé elementi alquanto interessanti e veri per me, considerando che non ci siamo mai conosciuti e visti, e che lui scrisse il pezzo con maestria solo dopo aver visto le foto dei miei quadri e letto i testi che sempre li accompagnano. Analisi, pensieri e considerazioni sul mio (non falso) modesto lavoro, che io mai avrei potuto scrivere. Il testo è rimasto chiuso in quel libro, visto, letto e comprato da pochissime persone, ovviamente, per lunghi anni, e credo valga la pena, anche solo per riconoscere i meriti dell'autore, riproporlo qui. Eccolo:
La pittura di un vagabondo
 “…. fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza…”.
E’ l’Ulisse di Dante il solo modello al quale credo sia riconducibile il vagabondare di Eliseo Oberti. I riferimenti a Bruce Chatwin o a Hermann Hesse, che pure vengono spontanei, risultano a ben vedere più tranquilli, direi più pigri rispetto all’inappagata tensione di Eliseo. Per il quale, il viaggio – che ha solo una data di partenza, aperto com’è al richiamo di qualunque tentazione – è uno stato di necessità, un bisogno fisico, che si fa sofferenza appena l’uomo prende stanza da qualche parte.
Così non ci sono – e non possono esserci – legami di sorta, ma solo questo profondo bisogno di andare per il mondo. Non importa dove e come, ma solo andare. Spesso verso mete estreme con mezzi che ai non viaggiatori possono apparire altrettanto estremi.
Ma non è l’avvincente e sofferto vagabondare di Oberti a interessarmi. Quanto le imprevedibili facce della sua personalità, che se vive il viaggio come scopo primario dell’esistenza, sa narrare egregiamente di questi suoi avventurosi itinerari, in fortunati libri. E ancora: scrive poesie e canzoni, e infine dipinge. Tutto per diletto, per passione, perché nella sua essenza rimane soltanto un viaggiatore.
Eppure, i quadri che ha messo insieme (al di là delle sue severe, o provocatorie, considerazioni: “non so dipingere”) meritano un’attenta lettura. Che risulta tanto più intrigante e suggestiva per i versi che di volta in volta accompagnano l’opera. Una sorta di ambientazione del dipinto, di ricerca e sintesi delle emozioni (e dei pensieri) da cui è nato - o meglio a cui è giunto -, una chiave di lettura che è solo un’ipotesi fra le tante possibili che il testo e il quadro suggeriscono.
Da un viaggiatore che affronti la tela, il paesaggio è quasi d’obbligo. Reso a tutte le latitudini e in tutte le stagioni. Animato o deserto, ma comunque ispirato a un topos, e sempre teso a rappresentare la bellezza della natura e del territorio. Nella pittura di Eliseo Oberti non c’è il paesaggio e non c’è l’impegno a realizzare qualcosa che sia accattivante, ovvero il quadro “ruffiano” che piaccia a tutti.
I motivi ispiratori appaiono essenzialmente cerebrali, intellettivi, ma dietro il dipinto c’è un flusso inconsapevole e inconscio, un groviglio di pensieri che durante il lavoro stesso si canalizzano in un’idea che Eliseo trasforma in immagini. Ed è qui – a mio avviso – il valore e il senso del suo dipingere. Nella capacità di passare da una spinta inconscia ad una razionale, da un flusso interiore ad una resa emotiva, che è come dire viaggiare dal centro di sé fino al cervello e al cuore, dall’energia pura della creatività alla ragione e alla fantasia.
Si dirà che ogni forma d’arte, che sia veramente tale, vive di questi transfert ma in genere si tratta di contenuti che hanno già in sé una naturale tendenza all’immagine, cosa poco ricorrente nelle tele di Oberti. Penso ad Anima nativa (ispirata alle violenze subite da molte etnie); a Il giardino dell’anima (con il suo incipit: Non amo le religioni); a Natura felina; a La realtà si colora dei pensieri. E ancora: L’energia del caos; Gli artigli della mente; Fiori dal nulla. Una rosa di quadri ai quali fanno da contraltare quelli ispirati alla donna e agli affetti più intimi. Una sorta di pausa, che i versi introducono con rara sintonia.
E passiamo al linguaggio, con il quale queste tematiche sono rese. Eliseo non può valersi di quel mestiere che consente in ogni caso di superare l’impasse di un quadro ma direi che proprio qui è da ricercare il meglio dei suoi lavori. Nell’immediatezza della rappresentazione, senza il sapiente uso di quei filtri accademici che finiscono spesso per uniformare anche l’ispirazione più fresca ed anarchica.
E’ un requisito, questo, al quale aggiungerei la coscienza (e l’umiltà) di chi sa di trasferire sulla tela un mondo che non è il più congeniale a questo tipo di espressione. E di farlo attraverso una ricerca cromatica, attenta ed equilibrata, dove spesso è il tono più che il colore a contribuire al felice esito del dipinto.
Così le opere riescono a proporsi con una loro sicura autonomia, rispetto al contesto di una vita all’insegna dell’avventura, della quale conservano tuttavia il fascino e la suggestione".








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